Secondo alcuni studiosi – tra cui lo scrittore cimbro più famoso, Mario Rigoni Stern (1921–2008) – i cimbri discenderebbero da una tribù guerriera di origine danese nota come Zimbar, che intorno al 100 a.C. attraversò le Alpi tentando di attaccare i Romani.«E forse dalla parola Zimbar deriva Zimbrisch – la lingua dei Cimbri», racconta Aurora, una donna del posto. Questa teoria è supportata anche dalla toponomastica locale e da numerose leggende, spesso collegate alla mitologia vichinga. Ma gli storici tendono a dubitare di questo mito.«Eppure, la leggenda della fiera tribù dei Zimbar fa ancora parte della nostra identità», insiste Aurora. «Molti abitanti di Luserna rivendicano con orgoglio i loro “antenati del nord”.»I documenti scritti, però, indicano che i primi cimbri furono coloni tedeschi provenienti dall’area dei laghi di Starnberg e Ammersee. Nel Medioevo, i principi di Trento invitarono falegnami, pastori, boscaioli e scalpellini bavaresi a popolare e rendere abitabili gli altipiani difficilmente accessibili del Trentino meridionale e del Veneto nord-occidentale. Alcune fonti indicano che fu il principe-vescovo Federico Vanga, tra il 1290 e il 1310, a portarli qui.I coloni parlavano una forma antica di tedesco con dialetto bavarese, la cui grammatica e vocabolario si sono evoluti nei secoli sotto la forte influenza delle lingue romanze. Il risultato è una lingua dolce e dura allo stesso tempo:I grüazaz significa “buongiorno”, bóart è “lavoro” e studjàrn vuol dire “studiare”.I suoi suoni gutturali sembrano portati dal vento del nord, lasciati a radicarsi qui con quei boscaioli bavaresi che, dal XIII secolo, abbatterono le foreste circostanti.«Il nome Alpe Cimbra deriva proprio da loro», spiega Aurora. «Alpe in italiano indica una zona d’alta montagna, e Cimbra si riferisce agli abitanti originari: i cimbri.»Il cimbro raggiunse il suo apice tra il 1500 e il 1700, quando era parlato da oltre 20.000 persone. Poi iniziò lentamente a essere assorbito dai dialetti locali. Mussolini completò l’opera di distruzione: durante il fascismo, in Italia si doveva parlare solo italiano.A Luserna, questo significò vietare la lingua madre. I cartelli stradali vennero ridipinti, i nomi tedeschi sparirono dalle mappe e nelle scuole si insegnava solo l’italiano.
Mentre i paesi vicini da tempo hanno adottato l’italiano o lo mischiano con un dialetto altoatesino, a Luserna oltre due terzi degli abitanti parlano ancora cimbro nella vita quotidiana – in casa, a scuola, durante le feste.L’isolamento e la barriera delle montagne hanno permesso alla popolazione di continuare a parlare la propria lingua, nonostante i decreti politici.Quando entro nel noto ristorante Malga Millegrobbe, vicino alla zona di sci di fondo, vengo accolta con: «Guute nàacht!» – Buonasera.Il proprietario Massimo passa poi all’inglese e mi accompagna al tavolo. Lo osservo parlare con i clienti in italiano, tedesco e cimbro, come se suonasse uno strumento a tre voci.Dentro l’ex baita, l’aria profuma di legno, brodo e cipolla arrostita.Chiedo di assaggiare un piatto della cucina cimbra.«Il nostro menù propone piatti tradizionali di montagna, semplici, basati su ricette e ricordi di un tempo in cui c’era poco, ma tutto aveva sapore», dice Massimo.Lo chef utilizza erbe raccolte dalle donne del posto secondo il calendario cimbro.Nella mia zuppa sento l’assenzio di prato; nel canederlo, formaggio di capra da una fattoria vicina.Come piatto principale, scelgo Millegrobbe – un mix di polenta, formaggio fuso, funghi porcini, fagioli e salsa luganega, fatta con salsiccia di maiale del nord Italia, speziata con noce moscata, pepe e vino. Con il piatto, una birra locale.«Qui non importiamo nulla: tutto è pascolato, coltivato o prodotto nel raggio di pochi chilometri», spiega Massimo. «I porcini li raccogliamo nei boschi vicini, le capre sono di Serafino, nella sua fattoria a Nosselari, e la birra è di Mateo, a Folgaria. Ogni cosa ha una provenienza e una storia.»
A Folgaria, in una birreria moderna con vista mozzafiato sulla valle del Rosspach, si produce una delle birre d’alta quota più premiate d’Europa.
Fondata sette anni fa, ha già ricevuto riconoscimenti internazionali. Si chiama BarbaForte – che in italiano significa “rafano”, ma in cimbro può voler dire anche “vecchio tosto”. E quel “vecchio tosto” è proprio Mateo, un appassionato della cultura locale.Da anni sognava di aprire una birreria e creare ricette dal carattere distintivo.
Già proprietario di diversi bar sull’Alpe Cimbra, ha iniziato a sperimentare con passione.
«Mi affascinava il processo della birrificazione. L’ingrediente più importante è l’acqua di montagna, pura e cristallina: rappresenta il 95% di ogni birra», racconta Mateo.
Nel 2016, con il supporto di due aziende, ha iniziato a produrre secondo le proprie ricette e ad agosto 2018 ha realizzato il suo sogno.Nella microbirreria si servono birre originali in bottiglie e lattine dal design giocoso. E siccome per Mateo la musica è importante quanto il luppolo, crea ricette ispirate a musicisti e generi musicali dell’Alpe Cimbra.
Una, ad esempio, si chiama Doppio Scoop, una birra chiara con note di ananas, lime e pompelmo, dedicata a una band che collabora con il birrificio durante gli eventi estivi.
Skaromantika, invece, prende il nome dal genere ska ed è un omaggio alla storica band trentina Red Solution.
«Voglio che ogni birra abbia qualcosa di mio, che rifletta la mia personalità», dice con tono quasi sentimentale.Le sue sperimentazioni creative includono anche idee all’avanguardia, come la Brünn Cuvée, che unisce birra e vino rosso locale.
Di fronte al vecchio campanile del villaggio di San Sebastiano si trova un negozio di formaggi gestito dalla signora Morena. Sulla porta è appeso un cartello di legno con la scritta in cimbro “Maso Guez” — accanto, l’immagine di una mucca con una vistosa macchia a forma di cuore sul fianco.«Guuten mòrgont!» mi saluta Morena in cimbro, invitandomi ad entrare per assaggiare i formaggi fatti in casa.
«Buongiorno!» rispondo, osservando incuriosita il logo con la capra.
Mi racconta che nella loro fattoria è nata una capretta bianca con una macchia marrone sul fianco a forma di cuore.
«L’abbiamo chiamata Gertrude II. È stato un segno della natura. Mio marito Serafino l’ha scelta come simbolo della nostra azienda», ride Morena.
«Sai cosa significa Maso Guez? È semplice: ‘fattoria delle capre’. Ma in cimbro.»Mi colpisce quanto sia piccolo il mondo sull’Alpe Cimbra: Morena è la moglie di Serafino, un contadino di Nosellari, poco distante, che rifornisce di formaggi il ristorante Malga Millegrobbe di Massimo, a Luserna.
Mi insiste affinché lo vada a trovare, perché Serafino, e d’estate anche il figlio Simone, insegnano ai turisti come mungere le capre, fare il formaggio di capra e perfino prevedere i temporali osservando il comportamento del gregge.Quando ci salutiamo, Morena mi chiede: «Dóus dai fénn?»
Non capisco.
«Vuoi un po’ di fieno?», dice, mettendomi in mano una manciata di foraggio per i capretti, e mi indica la strada per la loro fattoria, a 1.000 metri di altitudine.Ed è così che incontro Serafino, che in quel momento sta guidando un gruppo di turisti verso il recinto delle capre. Ma ecco la sorpresa: Serafino non è cimbro. È un immigrato proveniente dalla Sardegna, dove la sua famiglia allevava pecore, ma lui non voleva più seguire quella vita.«Sognavo una vita in città. Non volevo fare il pastore e prendere in mano l’azienda agricola di famiglia in Sardegna. Così sono scappato a nord, in Trentino. E qui, inaspettatamente, mi aspettavano le capre… insieme alla lingua cimbra e alla mia amata Morena, che devo ascoltare. Comanda lei. E quando ha detto ‘capre’, ho comprato capre. Beh, all’inizio solo una. Si chiamava Gertrude. E tutte queste qui sono sue figlie…»
Indica il gregge, composto da oltre cento capre, e il becco Fritzl, padre di tutti i capretti di Serafino.
Chiama ogni capra per nome, e quando parla del gregge sembra stia parlando della sua famiglia. I bambini ridono, le capre belano, e il pastore continua:«In Sardegna si pascolano le pecore — ma qui in montagna le capre sono proprio divertenti. Vanno dove vogliono, ma restano sempre unite. Proprio come i cimbri.»Poi arriva Simone, il figlio, guidando la vera star dell’azienda: Gertrude II, con la macchia a forma di cuore sul fianco.«Parli cimbro?», chiedo al ventenne.
«Ya, guet wia die Muatr. Koa schtòll z’Sant Sebastiaan», risponde. Non capisco una parola.
«Sai, il cimbro non è solo una lingua — è anche casa.»Più tardi, riesco a decifrare da un pannello informativo:
Koa schtòll z’Lusérn — “Non c’è posto migliore di Luserna.”
Testi e foto di Dana Emingerová